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Bollo e impossibile. Breve storia di un corto circuito digitale

Quando un servizio digitale incontra l’imposta di bollo… iniziano i grattacapi. Quando la trasformazione digitale di un processo si trova ad affrontare la questione dell’applicazione dell’imposta di bollo, sotto la forma di marca o contrassegno, il passaggio, apparentemente innocuo, diventa uno scoglio insormontabile che, se va bene, si riesce a circumnavigare a gran fatica.

Cerchiamo di capire come mai, senza addentrarci troppo nei tecnicismi.

Inquadramento e caratteristiche dell’imposta di bollo

L’imposta di bollo è una materia decisamente complessa, regolata da una normativa articolata. Il testo normativo di riferimento principale è il dpr 26 ottobre 1972, n. 62 (“Disciplina dell’imposta di bollo”), ma il fatto che esistano esperti specializzati nell’imposta di bollo la dice lunga sul dedalo di eccezioni e casi speciali di cui è costellata la materia.

Possiamo dire che l’imposta di bollo, un po’ come l’acne adolescenziale, è qualcosa che non si può comprendere fino in fondo, né nella sua genesi, né nella sua fenomenologia, né nelle sue finalità; va, invece, accettata e occorre imparare a conviverci, cercando di limitare i disagi che può arrecare.

Per le nostre finalità conviene ricordare qualche caratteristica dell’imposta di bollo. In primo luogo, si tratta di un’imposta che grava sui documenti[1]Il termine tecnico è “cartolare”: l’imposta di bollo è un’imposta indiretta e cartolare., sulle manifestazioni scritte (ad susbastantiam o ad probationem) di alcuni atti e negozi giuridici e non sugli atti o negozi giuridici stessi. Tant’è che, anche l’esperienza comune, guidata dalle regole del citato dpr di disciplina dell’imposta, ci ricorda che in taluni casi si applica una marca da bollo ogni tot numero di pagine[2]Per esempio, una marca da bollo ogni 4 facciate di un contratto e guai a fare i furbi e a scrivere piccolo: no, no, esiste la carta a uso bollo, pensata per le macchine da scrivere, con un numero … Continue reading.

Altra caratteristica dell’imposta è che la sua disciplina dichiara – questa volta, sì, in base allo specifico negozio giuridico rappresentato nel documento – quale parte del negozio è tenuta al pagamento dell’imposta, definendo ora responsabilità esclusive, ora responsabilità solidali. Il soggetto tenuto al pagamento dell’imposta è quindi un fatto rilevante e non secondario, da tenere ben presente quando si descrivono processi che coinvolgono l’imposta di bollo.

Tradizionalmente, in un ambiente di produzione documentaria analogico, basato sulla carta, l’imposta di bollo sui documenti si assolve – e qui torna in aiuto l’esperienza comune di tutti – tramite l’apposizione sui fogli che costituiscono il documento di una marca da bollo che, un tempo, si umettava[3]Si scrive “umettare” ma si legge, pardon, “bagnare con la punta della lingua”… e che poi è diventata un adesivo autoincollante che viene prodotto e stampato al momento dal rivenditore di valori bollati collegato con i sistemi informatici governativi. Il “contrassegno telematico” (questo il nome dell’evoluzione della marca da bollo) reca su di sé, oltre al tradizionale importo, anche data e ora di produzione e un codice identificativo. Per evitare imbrogli, il contrassegno applicato a un documento dovrebbe avere data di emissione precedente alla data del documento, così che non si possa pensare che sia stato applicato in un secondo momento, magari in vista di un controllo.

Le marche da bollo (o contrassegni telematici) prima di essere applicate vanno acquistate da un rivenditore autorizzato. E’ ragionevole perché chi rivende una marca da bollo, di fatto, riscuote un’imposta per conto dello Stato ed è bene che sia un soggetto affidabile e controllato. Così, “sali, tabacchi e valori bollati” è l’insegna che ha fatto storia e cultura e che usava campeggiare spesso su alcuni esercizi commerciali, centrali nella vita delle comunità più o meno urbane[4]Oggi, talvolta, l’insegna ormai divenuta storica e visibile a distanza rischia di guidare verso qualche negozio alla moda, magari in franchising: delizie della tutela del patrimonio culturale..

Cosa succede per i documenti informatici

Il passaggio da documenti analogici a documenti informatici non fa venire meno il loro assoggettamento all’imposta di bollo: cambiano alcune regole di dettaglio (per esempio, la tariffa diventa forfettaria piuttosto che legata al numero di pagine del documento) ma l’imposta resta. Si ricordano giusto un paio di eccezioni:

  • nel 2021, il “decreto semplificazioni” (dl 31 maggio 2021, n. 77) ha previsto per un periodo transitorio l’esenzione dall’imposta di bollo per i certificati anagrafici digitali rilasciati dai servizi online di ANPR[5]Del contenuto del decreto semplificazioni 2021 avevo parlato in un articolo su Linkedin che, con l’occasione, ho riportato anche in un post sul blog.;
  • l’imposta di bollo si applica anche alle copie (conformi) di documenti, anche non soggetti a bollo: sfuggono a questo caso i duplicati informatici[6]Sulla non assoggettazione dei duplicati informatici all’imposta di bollo, ci sono due risposte ad interpelli dell’Agenzia delle entrate: la n. 45 del 12/02/2019 e la n. 323 del … Continue reading, che non sono una copia ma un esemplare identico dell’originale e da questo indistinguibile (circostanza ignota al modo analogico).

Quello che sicuramente non può restare immutato è il metodo di assolvimento dell’imposta. E’ evidente che non è possibile applicare un adesivo su un documento informatico. Se anche immaginiamo l’adesivo come un oggetto informatico, la difficoltà resta.

Più nello specifico, infatti, una delle caratteristiche fondamentali che conferisce credibilità al documento informatico è la sua immodificabilità, la sua capacità di mantenersi integro e inalterato. Ciò si traduce nel fatto che un documento informatico perfezionato non può essere in alcun modo modificato nella sua sequenza binaria. Quindi, applicarvi successivamente un adesivo (ancorché virtuale) o, in generale, qualsiasi altro tipo di annotazione comporterebbe una variazione della sequenza di bit e quindi comprometterebbe l’attendibilità del documento[7]Ci sono, in realtà, delle eccezioni. Per esempio, il formato PDF consente di storicizzare versioni differenti, anche firmate digitalmente, di un documento. Ma qui il discorso è generale, anche … Continue reading.

La tecnologia informatica, comunque, ha elaborato un metodo generale per collegare fra loro oggetti digitali. Se si vuole associare in modo stabile un oggetto digitale a un altro oggetto digitale preesistente e non modificabile, si fa ricorso all’impronta digitale. L’impronta digitale di un oggetto informatico, ottenuta tramite funzioni di hash[8]Se ne era parlato in un post., è un numero che, negli usi comuni, ha una lunghezza di 256 cifre binarie (bit) corrispondente, nella più familiare notazione decimale, a un numero a 77 cifre, e che è in grado di identificare in modo sostanzialmente univoco un oggetto digitale[9]Due oggetti digitali possono in teoria generare la stessa impronta dopo che gli venga applicata una funzione di hash, ma la probabilità è una su… quel numero a 77 cifre di cui si diceva … Continue reading

L’impronta digitale è alla base di molti usi celebri, come la firma digitale. Ma, per mantenersi su un esempio più documentale, concreto e visibile possiamo pensare a una attestazione di conformità della copia informatica all’originale analogico da cui è tratta. Chi rende l’attestazione produce un documento in cui attesta che il file con un certo nome e con una certa impronta è conforme per contenuto (ed eventualmente forma) all’originale analogico da cui è tratto, per il quale magari indica un numero di segnatura per eventuali accessi che dovessero rendersi necessari nel tempo. In questa situazione, riferirsi al file che contiene la copia esclusivamente tramite il suo nome non fornirebbe abbastanza garanzie. Invece individuare il file tramite la sua impronta rende di fatto impossibili (o comunque rilevabili) successive alterazioni o sostituzioni del file.

La marca da bollo digitale

Il metodo generale appena descritto potrebbe essere utilizzato per associare in modo stabile un documento informatico e una marca da bollo (identificato per esempio dall’identificativo del contrassegno telematico) e un documento identificato dalla sua impronta.

In effetti, applicando questo metodo generale, l’Agenzia delle entrate ha elaborato il “bollo telematico @e.bollo“, le cui linee guida con specifiche tecniche annesse, sono datate, nella loro versione 2.0, dicembre 2018. Sulla pagina di riferimento sul sito dell’Agenzia si trova comunque anche un provvedimento sul bollo telematico di settembre 2014. In effetti, la delega all’Agenzia delle entrate di elaborare uno strumento tecnico per consentire “di assolvere per via telematica a tutti gli obblighi connessi all’invio di una istanza a una pubblica amministrazione o a qualsiasi ente o autorità competente“, si rinviene nella legge di stabilità 2014: legge 27 dicembre 2013, n. 147. La prossima volta che qualcuno – e manca poco – dirà che dopo le abbuffate di Vigilia, Natale e di Santo Stefano “quasi quasi oggi salterei il pranzo” saranno passati esattamente undici anni (11).

Le linee guida @e.bollo (paragrafo 5.1) definiscono la marca da bollo digitale come un documento XML che contiene, fra gli altri:

  • il nome del rivenditore di valori bollati (ormai chiamato “prestatore di servizi di pagamento”) convenzionato con l’Agenzia delle entrate;
  • il codice IUBD (Identificativo Univoco Bollo Digitale), assegnato dall’Agenzia delle entrate, analogo dell’identificativo del contrassegno telematico;
  • importo del bollo;
  • data e ora di emissione:
  • impronta del documento informatico al quale la marca da bollo è associata;
  • la firma elettronica avanzata del rivenditore autorizzato.

Bene, con un piccolo abuso di fantasia, possiamo immaginare che sia possibile per chiunque andare in una rivendita di valori bollati, fornire l’impronta digitale di un documento e uscirsene con sotto braccio il file XML che costituisce la marca da bollo digitale. Ovviamente non è così, ci sono impedimenti tecnici non da poco per questo scenario, ma il concetto è assolutamente quello.

La marca da bollo digitale nei servizi online

Gli impedimenti tecnici di acquistare un file XML in una rivendita fisica si superano tutti se l’emissione di una marca da bollo avviene all’interno del processo di fruizione di un servizio online. Del resto, le regole di ingaggio dell’Agenzia delle entrate contenute nella legge si stabilità 2014 proprio di “via telematica” parlano.

Dal 2014 a oggi è entrata in piena funzione la piattaforma pagoPA per i pagamenti verso la pubblica amministrazione. Le regole tecniche che sovrintendono al suo funzionamento, le SANP (Specifiche Attuative del Nodo dei Pagamenti), da una certa versione in poi, comprendono anche una sezione dedicata all’acquisizione della marca da bollo digitale associata a un documento tramite una transazione di pagamento pagoPA, con minime modifiche ai dati usualmente scambiati per i pagamenti.

Semplificando, a un certo punto il servizio online, che interagisce ordinariamente con la piattaforma pagoPA per ricevere i pagamenti legati al servizio, compone un pagamento pagoPA. Questo può includere anche una marca da bollo. In tal caso, la richiesta che viene poi inviata telematicamente al prestatore di servizi di pagamento prescelto dall’utente del servizio avrà alcune informazioni aggiuntive: l’importo della marca da bollo e l’impronta del documento al quale va applicata. Quando l’utente esegue con successo il pagamento, secondo le specifiche SANP, il prestatore di servizi di pagamento trasmette all’ente creditore (l’ente che eroga il servizio) una ricevuta telematica. Se il pagamento contiene anche una marca da bollo, il prestatore di servizi di pagamento trattiene per sé il corrispettivo del bollo e la ricevuta telematica include al suo interno il documento XML che costituisce la marca da bollo digitale. L’ente che eroga il servizio non deve fare altro che estrarre quell’XML dalla ricevuta telematica e archiviarlo o consegnarlo all’utente insieme al documento, se previsto.

Come altri osservatori hanno precedentemente sottolineato[10]Fra questi, Luca Braus in un articolo su Linkedin: Servizio @e.bollo come il cucchiaio in Matrix? | LinkedIn, il processo è probabilmente complicato[11]Per esempio: Marco Deligios in un articolo su key4biz propone una semplificazione basata su sigillo elettronico qualificato che, da un lato, funziona solo con i documenti in formato PDF (che sono … Continue reading e ci sono alcune difficoltà tecniche[12]Per esempio: se il bollo si applica all’istanza, questa potrebbe non essere ancora perfezionata come documento al momento del pagamento principale. In tal caso ci sono almeno due possibilità: … Continue reading che per brevità non ho evidenziato. Queste sono, comunque, superabile; del resto la trasformazione digitale deve farsi carico di gestire “sotto traccia” la complessità.

La realtà dei fatti

Complicazioni e difficoltà tecniche a parte, è indiscutibile che il servizio di bollo telematico @e.bollo esiste da anni, meticolosamente descritto e tutto sommato usabile, e da anni esiste uno strumento concreto (pagoPA) per utilizzarlo. Esistono anche soggetti autorizzati alla “vendita” della marca da bollo digitale.

Gli ingredienti per utilizzare il bollo telematico @e.bollo e integrarlo nei servizi online ci sono tutti. Prendiamo per esempio il rilascio di certificati anagrafici in bollo da parte di ANPR – l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente: il servizio è ampiamente utilizzato su scala nazionale, produce (immagino) migliaia di certificati annui, molti dei quali in bollo, e il servizio offerto è decisamente standardizzato e condizionato da poche variabili (o nessuna). Lo scenario ideale per utilizzare @e.bollo, eventuali sforzi di implementazione e avvio sono decisamente compensati dal volume di transazioni successive.

Invece… ANPR non adotta il sistema @e.bollo ma utilizza il metodo dell'”imposta di bollo assolta in modo virtuale“. In sintesi: dopo aver stipulato una convenzione con l’Agenzia delle entrate, chi offre il servizio online (il Ministero dell’interno) si fa anticipare tramite canali propri (mediati dalla piattaforma pagoPA, ovviamente) l’imposta di bollo dal cittadino che è il soggetto passivo dell’imposta in questo caso, e, a seguito di una rendicontazione periodica all’Agenzia delle entrate, versa, tramite F24, l’imposta di bollo al posto dei cittadini. Quando l’imposta è gestita così, i documenti recano la formula “imposta di bollo assolta in modo virtuale”.

ANPR non è l’eccezione, ma la regola. Che io sappia, al momento, è più degno di fede chi racconti di aver parlato con un unicorno rosa rispetto a chi sostenga di aver usato un servizio online con pagamento di imposta di bollo tramite il bollo telematico @e.bollo.

Allora, quando il servizio online incontra l’imposta di bollo, l’imposta di bollo è assolta in modo virtuale? Non proprio. Nei fatti, il metodo che sembra andare per la maggiore, perché non richiede convenzioni con l’Agenzia delle entrate né oneri rendicontativi e di versamento successivi è il seguente, introdotto nella prassi amministrativa da un decreto dell’allora Ministero per lo sviluppo economico[13]La disposizione è contenuta nell’articolo 3 del decreto ministeriale 10 novembre 2011, “Misure per l’attuazione dello sportello unico per le attività produttive di cui … Continue reading:

  • al fruitore del servizio online si chiede di acquistare il contrassegno telematico da un rivenditore fisico;
  • gli si chiede di inserire l’identificativo del contrassegno nell’istanza o comunque in qualche campo previsto dall’interfaccia del servizio online,
  • gli si fa promettere di non usare quello stesso contrassegno in altre occasioni e, magari, di applicare quel contrassegno su una stampa dell’istanza o del documento ricevuto e annullarla (cioè scriverci sopra) oppure di fornire una foto del contrassegno[14]Quanto meno per essere sicuri che non siano inseriti dei numeri a caso. A tal fine l’Agenzia delle entrate mette a disposizione un servizio tramite il quale un operatore può verificare se un … Continue reading.

Va da sé che quanto sopra di digitale ha ben poco e, se non si attua un cambio di passo deciso, si permane in una gestione ibrida dei processi che non fa bene a nessuno. Fra l’altro, né il bollo virtuale né la comunicazione a distanza di un identificativo di contrassegno virtuale sono metodi esenti da errori o problemi, sui quali non è qui il caso di dilungarsi.

Conclusioni

Resta un mistero perché il bollo telematico @e.bollo non riesca a prendere piede.

La caccia al primo utente (reale) del servizio è ancora aperta: prometto un’intervista sul blog al primo che si palesa come tale e alla pubblica amministrazione che ha fatto il miracolo.

Purtroppo, occorre anche stigmatizzare come, ancora una volta, lo Stato perda l’occasione per dare il buon esempio. Può sembrare una doglianza sterile, ma in realtà il mancato uso di @e.bollo (che, diciamocelo, se non va usato diciamolo e non ci pensiamo più) per i certificati anagrafici toglie l’entusiasmo a chi, in periferia, opera nella trasformazione digitale. Perché mai ingegnarsi per trovare un modo per trasformare in chiave digitale i processi e formare documenti nativi digitali, quando poi, se c’è di mezzo una marca da bollo, si deve virare sui consolidati metodi analogici?

Per esempio, perché dovrei inventarmi un metodo per produrre nativo digitale e trasmettere telematicamente al beneficiario un contrassegno da esporre su un veicolo per entrare in una certa area, inventarmi un metodo per verificarne l’autenticità quando esposto ed evitarne usi impropri se poi, a un certo punto, devo chiedere al beneficiario di andare a comprare una marca da bollo? A quel punto gli chiedo anche di passare in ufficio e il contrassegno lo produco all’antica, su un cartoncino colorato, con timbri e punzoni dell’ente emittente, una bella firma del responsabile del rilascio e, nota di colore, un variopinto contrassegno telematico griffato Agenzia delle entrate con tanto di emblema della Repubblica.

Nel frattempo lasciamo che i brividi ci corrano lungo la schiena quando, leggendo qualche disposizione che regola un nuovo servizio digitale, troviamo, buttata lì, qualche indicazione del tipo “restano ferme le disposizioni in materia di imposta di bollo“:[15]Il riferimento è alle linee guida sui pagamenti verso la pubblica amministrazione, che riguardano uso e funzionamento della piattaforma pagoPA: con tutta la flemma del mondo, queste … Continue reading ferme senz’altro, ma da applicare in un contesto in perenne movimento.

Disciplina dell’imposta di bollo: decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642.

Per il contrassegno telematico:

Per il servizio @e.bollo:

Imposta di bollo per le istanze trasmesse alla PA – Servizio @e.bollo – Che cos’è – Agenzia delle Entrate. Con:

Prestatori di servizi di pagamenti autorizzati al bollo digitale e regole per la convezione: Schede – Convenzione per il Servizio @e.bollo – Agenzia delle Entrate

Specifiche pagoPA: Servizio @e.bollo | SANP

Per l’imposta di bollo assolta in modo virtuale:

Schede – Dichiarazione imposta di bollo assolta in modo virtuale – Che cos’è – Agenzia delle Entrate

Foto di Wolfgang Claussen da Pixabay

Note

Note
1 Il termine tecnico è “cartolare”: l’imposta di bollo è un’imposta indiretta e cartolare.
2 Per esempio, una marca da bollo ogni 4 facciate di un contratto e guai a fare i furbi e a scrivere piccolo: no, no, esiste la carta a uso bollo, pensata per le macchine da scrivere, con un numero fisso di righe e margini decisamente ampi…
3 Si scrive “umettare” ma si legge, pardon, “bagnare con la punta della lingua”…
4 Oggi, talvolta, l’insegna ormai divenuta storica e visibile a distanza rischia di guidare verso qualche negozio alla moda, magari in franchising: delizie della tutela del patrimonio culturale.
5 Del contenuto del decreto semplificazioni 2021 avevo parlato in un articolo su Linkedin che, con l’occasione, ho riportato anche in un post sul blog.
6 Sulla non assoggettazione dei duplicati informatici all’imposta di bollo, ci sono due risposte ad interpelli dell’Agenzia delle entrate: la n. 45 del 12/02/2019 e la n. 323 del 25/07/2019. Se si aprono i PDF con il testo di interpello e risposta si può notare che mancano le date sia di interpello che di risposta e pure l’indicazione dell’anno del registro annuale degli interpelli: una bella perdita di contesto, che si può recuperare se si accede ai documenti (?) tramite il percorso previsto sul sito, a partire dalla sezione normativa e prassi che ospita le risposte agli interpelli (Normativa e prassi – Risposte alle istanze di interpello – anno 2019 – Agenzia delle Entrate)
7 Ci sono, in realtà, delle eccezioni. Per esempio, il formato PDF consente di storicizzare versioni differenti, anche firmate digitalmente, di un documento. Ma qui il discorso è generale, anche perché il PDF è un formato elettronico che, per larga misura, replica la dimensione cartacea del documento ma, ormai, ci stiamo abituando al fatto che i documenti informatici assumano forme che si scostano notevolmente dai paradigmi cartacei, presentandosi come flussi di dati o transazioni su basi di dati.
8 Se ne era parlato in un post.
9 Due oggetti digitali possono in teoria generare la stessa impronta dopo che gli venga applicata una funzione di hash, ma la probabilità è una su… quel numero a 77 cifre di cui si diceva prima, una su centomila miliardi di miliardi di miliardi… con “miliardi” da ripetere otto volte.
10 Fra questi, Luca Braus in un articolo su Linkedin: Servizio @e.bollo come il cucchiaio in Matrix? | LinkedIn
11 Per esempio: Marco Deligios in un articolo su key4biz propone una semplificazione basata su sigillo elettronico qualificato che, da un lato, funziona solo con i documenti in formato PDF (che sono comunque, per adesso, la maggior parte) ma che, dall’altro, renderebbe la marca da bollo immediatamente visibile sul PDF stesso senza bisogno di far riferimento a un difficilmente comprensibile documento XML esterno; anche Giovanni Manca, su agendadigitale, propone una soluzione basata sul sigillo.
12 Per esempio: se il bollo si applica all’istanza, questa potrebbe non essere ancora perfezionata come documento al momento del pagamento principale. In tal caso ci sono almeno due possibilità: si chiede all’utente di tornare sul servizio online prima di inoltrare l’istanza finale e fare un altro pagamento oppure, con una forzatura che in precedenti versioni delle linee guida era consentita, non si fornisce l’impronta del documento ma di una stringa identificativa univoca del procedimento/istanza (con ulteriori accorgimenti).
13 La disposizione è contenuta nell’articolo 3 del decreto ministeriale 10 novembre 2011, “Misure per l’attuazione dello sportello unico per le attività produttive di cui all’articolo 38, comma 3-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. (GU Serie Generale n.267 del 16-11-2011)“, che detta alcune regole in attesa della piena (e mai realizzata) attuazione del dpr 160/2010 sul funzionamento degli sportelli unici per le attività produttive, che di imposta di bollo ne macinano parecchia.
14 Quanto meno per essere sicuri che non siano inseriti dei numeri a caso. A tal fine l’Agenzia delle entrate mette a disposizione un servizio tramite il quale un operatore può verificare se un numero è un identificativo di contrassegno telematico valido – evidentemente, al parti del codice fiscale e di altri codici identificativi, anche l’identificativo del contrassegno telematico ha delle cifre di controllo.
15 Il riferimento è alle linee guida sui pagamenti verso la pubblica amministrazione, che riguardano uso e funzionamento della piattaforma pagoPA: con tutta la flemma del mondo, queste “suggeriscono” che, per ogni pagamento ricevuto, l’ente creditore emetta una quietanza liberatoria e la renda disponibile al debitore dotata di strumenti di verifica del contenuto anche in caso di stampa. Già questa non è una passeggiata di piacere, figuriamoci se va gestito pure il bollo, dopo aver valutato quando ci vuole e quando no…
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